Ut pictura poiesis, "la poesia è come un dipinto". Così Orazio nell’Ars poetica sancisce il legame indiscutibile – quanto ambiguo – tra l’arte pittorica e quella letteraria. Linguaggi che s’intersecano e scambiano: la pittura ha l’icastica potenza di una parola tanto quanto un verso ha la vivida delizia di un quadro. In particolare, tre grandi pittori italiani del Novecento esemplificano l’arte ‘poetica’ di un artista: Filippo De Pisis, ferrarese spesso di passaggio a Rimini – che ha fortemente influenzato la pittura riminese e che ha dipinto un particolarissimo ex voto, poi trafugato, per il Santuario delle Grazie – amato da Eugenio Montale, pittore eccentrico e poeta riconosciuto (Garzanti ne pubblica le poesie su auspicio di Giovanni Raboni); Scipione, maestro della ‘Scuola romana’, poeta raro ed eccezionale (dopo l’edizione Einaudi, introdotta da Amelia Rosselli, attendiamo una pubblicazione per il riminese Raffaelli); Carlo Fornara, il seguace di maggior genio di Giovanni Segantini, autore di prose liriche di micidiale bellezza (edite da Vanni Scheiwiller e da Marietti). Di questi pittori verrà specificato il particolare genio, con il conforto della lettura di alcuni testi.
Ut pictura poiesis, "la poesia è come un dipinto: questo, guardato più da vicino, ti prende di più; quest’altro se ti metti a distanza; per questo ci vuol la penombra, per questo la luce piena ché non teme il perspicace giudizio del critico; e così questo piace soltanto una volta, quest’altro anche se visto e rivisto". Orazio per primo, nell’Ars poetica, sancisce un legame tra la poesia e la pittura. A differenza della prosa, infatti, la poesia sconfigge la logica della narrazione, può procedere per suggestioni e suggerimenti, per ‘impressioni’. Scrivere è come dipingere, in fondo: gli aggettivi fungono da colori più o meno ‘carichi’; una poesia può essere tenacemente descrittiva oppure ‘informale’ – laddove il significante ha eminenza sul significato, dove cioè a ‘significare’ è la musica, il modo in cui cozzano le parole più che il senso delle parole in sé. Forzando Orazio, poi, giungiamo anche a una riflessione sulla nascita del linguaggio: non è plausibile, forse, che le lettere in origine fossero dei disegni e che ogni scrittura, in fondo, è un ideogramma?
Che un pittore scriva – tenuto conto che, come indica Orazio, scrivere è un po’ dipingere – non è una novità: le Rime abbozzate da Michelangelo sul margine dei suoi disegni abbozzati sono, giustamente, già storia della letteratura. Per alcuni poeti, insomma, la scrittura poetica è un prolungamento del genio pittorico. Uno dei casi più eclatanti è quello di Filippo De Pisis (1896-1956), ferrarese, che consapevolmente pubblica i suoi scritti poetici, almeno dal 1915 (I canti della Croara, sotto l’ispirazione del Pascoli), raccogliendo le sue Poesie da Vallecchi nel 1942. De Pisis è un pittore estremamente vivace, legato a Rimini e al mare Adriatico. Già nel 1916, a Riccione, racconta l’Adriatico, "un mare azzurro e variabilissimo"; nel 1931 conosce Alfredo Panzini e si muove tra Cesenatico e Bellaria, a Cesenatico frequenta Marino Moretti. Secondo la testimonianza di Nico Naldini "il rapporto con il mare Adriatico è la storia della pittura di De Pisis. Gli sfondi di moltissimi quadri, di nature morte come di ritratti, è il mare. Una delle prime mostre che De Pisis ha fatto a Parigi è stata presentata da Francois Mauriac che per più di metà dello scritto parla di questo mare, il mare Adriatico e dell’interpretazione che De Pisis ne dà. Dobbiamo ricordare che De Pisis ha vissuto lungamente sulla riviera adriatica: Cesenatico, Rimini, Riccione". Rimini, tra l’altro, fa sfoggio di sé in alcuni quadri che De Pisis presenta alla XIX Biennale di Venezia del 1934: Lavandaie alla Marecchia, Dal ponte di Tiberio, Paesaggio-Rimini. L’attività più concreta di De Pisis a Rimini accade comunque tra il 1940 e il 1941: a questo periodo appartiene uno dei più riconosciuti ritratti di De Pisis, il Ritratto di Allegro, datato ‘Rimini ’40’, che fa mostra di sé alle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara, "Quando fu di ritorno a Milano andai a trovarlo. Abitava sempre all’albergo Vittoria e mi fece vedere un grande quadro fatto a Rimini, il ritratto di Allegro, un ragazzo con gli occhi verdi che aveva conosciuto sulla spiaggia. Era con me Massimo Bontempelli e al vederlo disse che quel quadro apparteneva a un nuovo classicismo. […] De Pisis aveva scritto col pennello sullo sfondo, giocando sul nome del ragazzo: "non Allegro ma Allegri", una volta tanto giudicandosi con orgoglio, nel raffrontarlo ad un Correggio", ricorda lo scrittore Giovanni Comisso in merito a quel quadro [Allegri si riferisce ad Antonio Allegri, nome anagrafico del Correggio]. A Rimini, per altro, si svolge un episodio artistico curioso della vita di De Pisis: "durante le vacanze estive" al pittore viene in mente di "dipingere una specie di tavoletta votiva" con "una pittura arieggiante al primo Quattrocento" per il Santuario delle Grazie. L’opera viene compiuta su "una bella assicella di noce", con la Vergine "che apre il mantellone, pronta nella sua infinita misericordia ad accogliere anche il più indurito peccatore". Il pittore, insieme a sé, pone "il santo Cocò ai piedi della Vergine", il suo pappagallo "di verde squillante". Poi, in una sorta di carnevalesca processione, con De Pisis con "saio di sacco in brandelli, piedi nudi, capo scoperto, una corda alla cintola" e pappagallo appresso, la tavoletta viene deposta alle Grazie, presso i "buoni padri minori". La tavoletta votiva era griffata, nel retro, Philippus De Pisis fecit in Arimino A. D. MCMXLI – Mater Dei ora pro me. Donato per p. al Museo delle Grazie VII.IX-1941. Ma non c’è più. Infatti, fu rubata dal Museo Missionario delle Grazie nella notte tra il 16 e il 17 settembre del 1985. Fu un furto mirato, come si dice, dacché null’altro fu sottratto.
Oltre che della sua attività pittorica, De Pisis fu fiero della sua qualità poetica. "Queste Poesie nella lirica contemporanea meriterebbero un posto migliore", scrive l’artista nel 1950. "Le poesie di De Pisis sono tutt’altro che le poesie, non dico di uno sprovveduto, ma nemmeno di un isolato o di un eccentrico. Se il clima che evocano a prima vista o, meglio, a primo suono non è quello maggioritario del cosiddetto ermetismo, non è certo difficile riconoscere la loro piena appartenenza a quell' "altro Novecento"... che annovera al proprio interno figure di prima grandezza come Betocchi e, prima di lui, Saba e Valeri...", scrive Giovanni Raboni introducendo l’ultima edizione delle Poesie di De Pisis (Garzanti, 2003). Fu amico di Eugenio Montale – coetanei, si conobbero a Genova nel 1920 –, la cui sintonia è segnalata almeno in una poesia esplicita raccolta ne Le occasioni, Alla maniera di Filippo De Pisis nell’inviargli questo libro: "Una botta di stocco nel zig zag/ del beccaccino -/ e si librano piume su uno scrìmolo.// (Poi discendono là, fra sgorbiature/ di rami, al freddo balsamo del fiume)", che è un esempio nitido di poesia pittorica, che simula lo stile di un pittore.
La poesia di De Pisis? Altamente, volutamente ‘pittorica’:
Alberi spogli
Dal muro alto sporgono
alberi spogli
forche, braccia, grucce.
La conifera scura resiste al gelo,
il platano più alto
(belle macchie sul tronco glorioso),
ha ancora qualche foglia d'oro
e l'evònimo puntuto, rosse bacche.
Melanconici come vecchi in riposo
in attesa della dolce fioritura.
Nel grigio fine un'ala appena,
fa musica.
Diverso, e straordinario, il caso delle poesie di Gino Bonichi, per la storia dell’arte Scipione (1904-1933), protagonista assoluto della ‘Scuola di via Cavour’, meglio nota come ‘Scuola romana’, insieme a Mario Mafai, Antonietta Raphael, Renato Marino Mazzacurati, Corrado Cagli. Pittore avido di visioni, di deliri deviati in rubino e in barocco – suo artista eletto è El Greco: "per noi il Greco è un visionario. Con la sua pittura sconvolge le menti, le chiese si popolano di incubi religiosi… Le sue figure sono fantasmi che si concretano con una realtà tattile terribile… La bellezza intangibile dei suoi personaggi divini si sforma, si corrompe, ad ammonire le genti", ma prefigura Francis Bacon – fu lettore vertiginoso – amava il Giuseppe Ungaretti del Sentimento del tempo ed era sintonizzato con le profezie di William Blake – e letterato di genio. Morto a 29 anni di tubercolosi, Scipione lasciò inedite le sue Carte segrete, così titolate da Enrico Falqui, che le radunò nel 1943 in una complessiva edizione Vallecchi – lo stesso editore di De Pisis – poi replicata da Einaudi nel 1982, con introduzione di Amelia Rosselli che applaude a una poesia "calma, candida, sensoria", e definisce quella stretta manciata di dieci poesie "splendide, anzi esemplari". Il ‘caso’ Scipione, riportato alla ribalta da Raffaelli, in effetti, è vertiginoso: i suoi diari hanno una compostezza eremitica, ma a sorprendere sono le poesie. Dieci, scritte tra il 1928 e il 1930, di miliare bellezza. La visione ha una severità pittorica, ogni cosa suona come sotto lo sguardo di un angelo – pare la ferocia di un Dino Campana misurata sulla nitidezza ossessiva di Emily Dickinson. Resta, appunto, un caso unico nella storia della letteratura italiana.
Attraverso la scrittura gli artisti non precisano in modo ancillare e servizievole il proprio mondo pittorico. Lo compiono. Ne dettano i confini estremi. Un artista come Carlo Fornara (1871-1968), esecutore estetico di Giovanni Segantini, teorico del divisionismo – "fu una rivelazione che portò nuova forza nell’arte", scrive, a posteriori, nel 1952, "esso non è una moda effimera come i tanti ismi che si succedono in una ridda vertiginosa, ma è tale conquista che potrà subire momentanei disconoscimenti ma non perire, perché ha portato nell’arte un elemento che è la fonte stessa della vita universale: la luce" – genio selvaggio – proviene dalle valli di Domodossola – eroe, insieme a Pellizza da Volpedo e a Gaetano Previati, delle più importanti rassegne espositive dei primi vent’anni del Novecento, nel 1922 ebbe la forza filosofica di uscire dal mondo dell’arte. Si ritirò nelle sue valli, impedendo che i galleristi mettessero in mostra i suoi quadri. Il mondo non poteva più dargli nulla. Fornara si era realizzato. Nel 1935, con la serenità regale di un Marco Aurelio, scrive: "La tranquillità e serenità d’animo dipende da noi. Ci rodiamo, ci tormentiamo per delle larve create dalle nostre passioni, talvolta puerili e basse. Bisogna crearsi una filosofia propria, che sia in grado di renderci indifferenti a tutti gli eventi esteriori. In me, molte sofferenze provengono dall’orgoglio, dalla smania di dominare. Considerare cosa sono in sé queste passioni; formasi una disciplina interiore che ci renda indifferenti e superiori a tutti gi eventi" (i taccuini sono raccolti in parte in Bello di colore, pubblicazione Scheiwiller del 1969). L’anno dopo questa riflessione, nel gennaio del 1936, Fornara è reclamato a Milano per un incontro con un alto funzionario dell’Accademia d’Italia. Gli si vuole assegnare un seggio in quella istituzione patria, diretta, quell’anno, da Guglielmo Marconi – che passerà il testimone, nel 1937, a Gabriele D’Annunzio – di cui fan parte Enrico Fermi e Pietro Mascagni, Filippo Tommaso Marinetti, Giovanni Papini, Alfredo Panzini, Luigi Pirandello, Ardengo Soffici, Ottorino Respighi, Giuseppe Ungaretti, Adolfo Wildt. Beh, Fornara rifiuta. Con una lettera che è il sunto della sua scelta poetica: "Se a quel seggio si arriva per raccomandazioni o pressioni non lo voglio; se lo si dà come premi a meriti cospicui non mi credo degno. Sono un piccolo grillo che su l’orlo del suo rifugio canta la sua modesta serenata al sole di Dio, ai fili d’erba, alle nuvole, e nulla chiede se non una goccia di rugiada alla sua sete, una radice alla sua fame". Eccola, infine, in forma poetica, cos’è la vita dell’artista, in ostinata ostilità ai seggi, alle forme – etiche ed estetiche –, alle pratiche del potere politico.
Davide Brullo