Lo scorso anno ci eravamo lasciati al termine della serata dedicata alla misurazione della temperatura economica del territorio, con l’invito ad accomodarsi nel tunnel della crisi, al punto da pensare di arredarlo per maggiore comodità.
Quest’anno Maurizio Temeroli, Socio del Club e Segretario Generale della Camera di Commercio, ci ha trasmesso un filo di ottimismo maggiore. A patto di non illudersi troppo perché tutto quel che di buono accade per la nostra economia…. Non è merito nostro.
Il dollaro più forte e la svalutazione conseguente dell’euro, la battaglia del prezzo sui barili di petrolio che ne ha fatto discendere a picco il costo, la poderosa iniezione di denaro contante disposta dalla Banca Centrale Europea, sono tutti fattori endogeni.
E noi? Noi dormicchiamo, le riforme stentano, il costo del lavoro resta spropositato e il Jobs Act non ha ancora trasmesso l’idea di essere la medicina giusta.
“Segnali di ripresa – ha detto Temeroli – ce ne sono perché queste condizioni non possono che aiutare le imprese, particolarmente quelle che internazionalizzano la loro attività. Ma non arrivano sulla nostra pelle questi segnali, coi consumi sempre inchiodati, un fisco soffocante e una burocrazia opprimente. Per non parlare della giustizia, o meglio della certezza che ad un errore corrisponde una pena da stabilire in tempi e durezza ragionevoli”.
La crisi, secondo i dati presentati da Maurizio Temeroli, ha prodotto danni enormi sul nostro territorio, che in sette anni è arretrato di quasi nove punti nel PIL. La disoccupazione è aumentata del 5,6% in sei anni e quella giovanile nella fascia d’età fra i 15 e 29 anni è salita di oltre venti punti percentuali. Una enormità.
Si sono create le condizioni per la cosiddetta terza società.
Ne ha scritto Luca Ricolfi qualche giorno fa sul Sole 24 Ore, ricordando Alberto Asor Rosa che nel lontano 1977 fu il primo a parlare dell'Italia come di una società in cui convivevano, o meglio si contrapponevano e si scontravano, ‘due società’. Asor Rosa lo faceva, dalle colonne dell'Unità, reagendo a all’episodio che vide l'assalto, da parte del movimento studentesco e dei circoli proletari giovanili, al palco da cui Luciano Lama, segretario generale della Cgil, tentava di tenere un comizio. In quella circostanza la sinistra prese coscienza della frattura che si era creata fra il mondo dei produttori, difesi e garantiti dal sindacato e dal Partito Comunista, e il variegato mondo degli esclusi, “fatto di emarginazione, disoccupazione, disoccupazione giovanile, disgregazione” (così lo descriveva Asor Rosa), privo di rappresentanza, sostanzialmente estraneo al mondo del lavoro, talora per necessità, spesso per scelta.
Ora Ricolfi è convinto che di società non ne convivono due, ma tre. C'è la Prima società, o società delle garanzie, fatta di dipendenti pubblici inamovibili e di occupati nelle grandi fabbriche, tutelati dai sindacati e dagli ammortizzatori sociali. C'è la Seconda società, o società del rischio, fatta di partite Iva, artigiani, piccoli imprenditori e loro dipendenti più o meno precari, accomunati dalla esposizione alle turbolenze e ai capricci del mercato. E c'è la Terza società, o società degli esclusi, fatta di lavoratori in nero (spesso immigrati), disoccupati che cercano attivamente un'occupazione, lavoratori scoraggiati che il lavoro non lo cerano solo perché hanno perso la speranza di trovarlo. La novità è che, nel corso del 2014, le dimensioni della Terza società sono per la prima volta nella storia d'Italia divenute comparabili a quelle delle altre due: dieci milioni di persone, più o meno quante ne contano la Prima e la Seconda società.
Nella classificas che riguarda l’incidenza delle ‘terze società’ l’Italia ha solo quattro paesi dietro a sé fra i 42 più sviluppati al mondo.
Ma torniamo a Rimini, dove anche sotto l’aspetto della numerosità delle imprese va regitraro un arretramento forte. Fra 2013 e 2014 oltre due imprese al giorno hanno chiuso, mentre in cinque anni le banche hanno visto triplicare i crediti sofferenti. Per non parlare dei dati degli avviati al lavoro e con quale tipo di contratti. Un pianto.
E allora, dove trovare uno spunto di ottimismo?
Dalle analisi degli scenari, se a loro vogliamo affidare sostanza vera. Ci viene detto che se il tunnel fosse lungo 100 metri, le imprese con meno di venti dipendenti ne hanno percorsi 73. Saremmo a tre quarti. L’Italia dovrebbe arrestare la sua discesa, l’Emilia Romagna annuncia segni positivi largamente superiori alla media e Rimini… promette di migliorare un po’ di più dell’Italia (che però ha zone davvero depresse) ma non riesce a tenere il passo della Regione di cui fa parte. Ognuno si faccia le proprie analisi, mentre è bene ricordare quanto il Prof. Vergallo scrisse nella sua pubblicazione intitolata ECONOMIA REALE ED ECONOMIA SOMMERSA NEL RIMINESE IN PROSPETTIVA STORICA (Mimesis Edizioni, 2012) e nella quale testualmente scrisse: “ Confrontando dunque il posizionamento di Rimini nelle classifiche precedenti, ci si accorge che la provincia, nella classifica dei redditi Irpef pro‐capite, avrebbe dovuto realisticamente collocarsi all’incirca nella posizione «tre e mezzo», coerentemente con il posizionamento secondo gli «indici di sviluppo» che Confindustria Confindustria ha attribuito a Rimini (giudicata (giudicata seconda, come sviluppo generale, dopo Milano). Si tratterebbe dunque di una quota di sommerso probabilmente superiore a quella stimata dall’Agenzia delle Entrate, che attribuisce a questa parte dell’Italia una evasione compresa tra 34 e 47 euro ogni 100 dichiarati: una quota che potrebbe anche superare ‐ non in tutti ma in alcuni settori e in alcune aree ‐ punte del 50%.
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