Interclub con Inner Wheel Rimini e Riviera, Soroptimist Rimini ed Agora 11 Rimini.
Serata ricca di intense emozioni
quella che abbiamo trascorso martedì, grazie al racconto che Monica Falocchi cj
ha fatto della sua terribile esperienza vissuta all’interno del reparto di
terapia intensiva degli Spedali Civili di Brescia durante l’esplosione ed il
propagarsi della pandemia. In quel periodo Monica Falocchi ricopre l’incarico di
infermiere coordinatore, ed improvvisamente arriva lo tsunami!
"Raccontare, ricordare, per non
dimenticare...". Queste le prime parole di Monica. Ripercorrere assieme a noi
la sua esperienza professionale ed umana è emotivamente faticoso, e l’emozione
è palpabile. A volte la sua voce trema per la commozione...
21 febbraio 2020: Monica è in
servizio nel suo ufficio e riceve la telefonata che conferma la presenza del virus
a Codogno. Vicino, troppo vicino a Brescia... Un brivido di paura attraversa lo
sguardo di tutti quelli presenti in quel momento in ufficio. La reazione è
immediata, pronti ad affrontare un virus di cui si sa poco, a parte
l’infettività.
"...Sapevamo come comportarci,
sapevamo che sarebbe accaduto, ma non immaginavamo in quel modo..."
Continua il racconto: "...Le
nostre identità sono state annientate dalle protezioni: tuta protettiva
plastificata, occhiali protettivi, mascherina, doppi guanti. Si vedevano a
malapena gli occhi..."
Monica non può dimenticare "il
sudore lungo la schiena, il caldo, la sete insopportabile, il dolore che la
mascherina provoca al naso, indossata anche per dodici ore al giorno. I solchi
rimangono sulla faccia per ore..."
"...Tenere sotto controllo i
pazienti sedati e collegati ai respiratori è un impegno delicato e gravoso, e
richiede competenze avanzate, concentrazione costante e abilità tecniche con
ritmi di lavoro frenetici e pesantissimi. Non esistono "pause caffè", e non esistono
scambi di battute a fine turno... solo occhi stanchi e pieni di lacrime..."
Arriva l’ennesima barella: Monica
incrocia il suo sguardo con quello del malato, un giovane uomo, "..e nei suoi
occhi la paura, quella vera, la disperazione... con il poco fiato che ancora
gli resta supplica di poter chiamare i suoi cari... dice: "non posso andarmene!
Non posso andarmene senza aver detto loro che li amo!"
"Impossibile trattenere
l’emozione...", racconta con commozione Monica, "...le parole di forza della
moglie, il "ciao" della figlia, mi sono entrate come una spada nel cuore. E
come lui, altri! Troppi..."
"Il pensiero comune è che i
sanitari sono abituati, ma non è così! Non ci si abitua mai alla sofferenza,
alla morte. Si diventa solo bravi a proteggersi, ma la capacità di resilienza
viene meno, non c’è tempo per elaborare, per metabolizzare... come si fa...
come si fa a farsi scivolare tutto... la gente comune, dopo un film drammatico,
all’uscita della sala fa fatica a sorridere, ma qui non si trattava di un film!
Era la dura realtà..."
Monica Falocchi ha trascorso ben
quindici anni in un reparto di rianimazione, e questo fatto, di per sé, la
rende una persona speciale, una eroina! "...Rianimazione è un reparto
difficile, estremamente impegnativo, sia dal punto di vista fisico che
psichico. Lo spaccato di vita che si vive al suo interno entra dentro, nel
profondo dell’anima..."
È un lavoro usurante, ma
"...abbiamo accolto tutti i malati come persone, e non come numeri. Abbiamo
conservato con cura i loro effetti personali...". Piccoli gesti ed attenzioni
che hanno umanizzato, per quanto possibile, il dramma vissuto da così tante
persone e dalle loro famiglie. Molti pazienti arrivano in ospedale direttamente
da casa e Monica, nel suo racconto, descrive come "... spesso si rende
necessario sfilare anelli, orologi, ciondoli, prima di eseguire la sedazione...
ricordo quei gesti con grande tristezza, con la continua sensazione di violare
l’intimità dei ricoverati... e poi comunque non c’era nessuno in sala d’attesa
a cui poterli consegnare..." Anche questo particolare turba il racconto di
Monica: "...non ci dormivo la notte al pensiero di smarrire qualche oggetto
personale o scambiarlo con altri... pensate che valore può assumere un semplice
anello per una famiglia che non ha potuto riabbracciare il proprio caro..."
"Noi sanitari abbiamo
rappresentato l’unico contatto umano che i pazienti hanno potuto avere durante
i ricoveri, ed a noi si chiedevano non solo le cure, ma EMPATIA e CALORE
UMANO... l’assenza delle famiglie è stato un vuoto enorme... ci siamo sentiti
investiti di un ruolo ingombrante... abbiamo tenuto la mano ai malati e ci
siamo sostituiti alle famiglie nel momento della morte... nessuno è morto da
solo..."
"Mai come in quei momenti è stato
chiesto ai sanitari di dare prova di coerenza nel rispetto della persona, cosa
che li caratterizza!" Sono stati chiamati eroi, "... ma noi siamo consapevoli
che abbiamo fatto, e continuiamo a fare, il nostro dovere, inteso nel senso più
alto del termine..."
Conclude Monica: "l’esperienza
vissuta dai sanitari, nessuno escluso, ci ha segnato profondamente, una ferita
nell’animo... troppe le immagini impresse nella memoria, i ritmi frenetici, i
rumori della corsia che nella prima ondata facevano da contraltare al silenzio
ed alla desolazione delle strade della città durante il mio ritorno a casa,
sola, stanca, svuotata... mi sono chiesta spesso: come sono sopravvissuta a
tutto questo? Ho un’unica risposta: grazie all’amore! Isolata dagli affetti per
mesi, ma mai sentita sola. Chi ci ama veramente sa trovare il modo di starci
vicino e sostenerci anche se è distante!"
"Per un certo periodo di tempo
c’è stata l’attenzione dei media, e questo, per i sanitari, è stato
incoraggiante. Cresceva la speranza che la situazione drammatica ed i
riflettori puntati avrebbero smosso le coscienze a chi di dovere. Ma è stata
un’illusione... Le ondate si sono susseguite senza che il personale sanitario
potesse avere il tempo di rinfrancarsi, tirare un po' il fiato. La paura di non
reggere era tangibile... lo sforzo mentale, emotivo e fisico che è stato
richiesto ai sanitari è stato molto al di sopra delle loro possibilità, tanto
da minarli nel fisico e nell’anima..."
"Chi lavora ancora nei reparti
Covid è sfinito, svuotato e molto arrabbiato! Oggi si sente ancora parlare di
infermieri malmenati, insultati, sottopagati... non è più accettabile! Gli
infermieri sono la spina dorsale della Sanità, una professione che merita
rispetto e riconoscimento!"
"Vado fiera della categoria che
rappresento: il personale sanitario, ospedaliero e del territorio, ha fatto
tutto ciò che era possibile e continua a farlo con professionalità ed umanità.
Il mio viso ha rappresentato, mio malgrado, il volto di migliaia di
professionisti... mai avrei pensato che uno scatto rubato avrebbe potuto finire
sulla copertina di una rivista internazionale. Quella foto fu un caso, la feci
senza pensare... non avevo il tempo di farlo... Realizzai molto tempo dopo il
significato di quella copertina per me e per la categoria che rappresento.
Quando osservo quella fotografia faccio fatica a riconoscermi... i miei occhi
non erano lì, in quello scatto, erano sul campo in prima linea..."