CRONACHE MALATESTIANE: STEMMI NOBILIARI E STEMMI VESCOVILI. DA FAENZA UN GESTO UMILE

25 gennaio 2014   00:00  

Ho assistito con molto interesse, presso la Rubiconia Accademia dei Filopatridi cui ho l’onore di appartenere, alla presentazione del volume I vescovi di Rimini del Secondo Millennio (Ed. Ponte Vecchio) di Angelo Turchini, docente di Archivistica all’Università di Bologna e storico della Chiesa Riminese e Giulio Zamagni esperto di araldica religiosa. Opera appassionata, di grande impegno e spessore culturale, intesa ad illustrare tutti gli stemmi episcopali dei settantaquattro Vescovi che si sono avvicendati nella Curia Riminese nell’ultimo millennio, unitamente ai loro ritratti e note biografiche. E ho appreso che, fino a tutto il diciassettesimo secolo, la maggior parte di coloro che venivano elevati all’ordine episcopale erano di nobile estrazione e dunque titolari di uno storico stemma di famiglia che esibivano orgogliosamente sulla facciata della Curia o della Cattedrale. Quando però a questi aristocratici prelati si sostituirono quelli provenienti dal popolo, ecco nascere una araldica ecclesiastica autoprodotta. Ogni Vescovo, infatti, provvide a inventarsi un proprio stemma personale, mediante il quale, attraverso simboli grafici spesso accompagnati da un motto latino, segnalava i valori spirituali che lo ispiravano e il programma pastorale che intendeva perseguire. Tanto per fare un esempio, lo stemma scelto dal nostro attuale Vescovo Monsignor Francesco Lambiasi, applicato sul portale del Tempio Malatestiano, rappresenta una navicella color marroncino chiaro con albero maestro cruciforme, dotata di cinque remi neri la quale, sospinta da una vela bianca sul quale è inciso il monogramma XP in rosso, attraversa un mare blu a strisce celesti sotto un cielo illuminato da una stella dorata a otto raggi, sostenuta da un Grande Pesce d’argento. Motto: in nomine patris scritto in lettere nere su un festone giallo. Il tutto sormontato dal cappello verde vescovile e affiancato da sei nappine, pure verdi per lato. Lambiasi, nella sua prefazione al volume, ne spiega diffusamente il significato. La nave in mare aperto con l’albero a forma di croce e le vele gonfiate dallo Spirito Santo, rappresenta, secondo la simbologia paleocristiana, la Santa Chiesa. La stella è la Santa Vergine Maria che addita il Porto del Regno di Dio. Il motto segnala che è Dio e non il Vescovo a guidare la sua Chiesa. Il pesce (aggiunto da Lambiasi al suo precedente stemma di Vescovo di Anagni-Alatri) indica il tradizionale simbolo di Cristo e, osservano gli autori, suscita, associato a Rimini, il ricordo della predica miracolosa di S.Antonio da Padova ai paganelli del nostro Porto. Affermano ancora Zamagni e Turchini che l’araldica ha molto in comune con gli attuali segni della comunicazione quotidiana, dalla segnaletica stradale, agli scudetti delle squadre di calcio e ai simboli di partito. E che dunque gli stemmi ecclesiastici, rappresentando una esigenza comunicativa che unisce la fede alla storia e alla tradizione, non debbono essere considerati come superflui simboli di vanagloria, indicando non tanto i segni del potere, quanto il potere dei segni secondo la classica definizione del Vescovo Tonino Bello, espressamente richiamata da Lambiasi nella citata prefazione. Rispetto alla semplicità degli stemmi nobiliari legati a un tradizione familiare, quelli creati per trasmettere un messaggio personale si rivelano spesso disarmonici rispetto alla facciata della Cattedrale in quanto ridondanti per cromatismo ed eccessi figurativi, così da provocare a volte il sommesso invito della Soprintendenza alle Antichità e Belle Arti a spostare il manufatto all’interno dell’edificio o sulle pareti della Curia. In quanto alla consuetudine vescovile di creare i propri stemmi - accettata ma non imposta dalla Chiesa- essa - come pure ricorda Lambiasi nella sua prefazione - aveva anche una ragione pratica data dall’utilizzo dello stemma sul sigillo col quale il Vescovo autenticava i propri atti. E, naturalmente consentiva ai posteri di ricostruire ed interpretare grazie a quei segni, le vicende di un passato spesso nebuloso. Si può affermare lo stesso oggi, nell’era della comunicazione di massa? Si usa ancora la ceralacca? Ad una mia domanda Giulio Zamagni ha risposto che c’è anche chi si è rifiutato, forse in segno di francescana umiltà, di adottare un proprio stemma episcopale. Si tratta di Monsignor Tarcisio Bertozzi di Gambettola, Vescovo di Faenza dal 1986 al 1996, anno che, purtroppo, segnò anche la sua dipartita. Questi romagnoli! Giuliano Bonizzato

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