ISTRIA, DALMAZIA E FIUME, IL CONFINE DELLE TERRE DELL'ADRIATICO ORIENTALE - 1945

11 giugno 2019   20:15   Hotel Ambasciatori RIMINI
Riunione n° 43-1825 - Conviviale con signore
Relatori Prof. Stefano Zecchi, studioso di grande notorietà, conosciuto, anche, per le tante partecipazioni televisive.

E’ professore di estetica; romanziere saggista, editorialista. Ha firmato innumerevoli opere, ultima delle quali "L' amore nel fuoco della guerra" .

Si ringrazia per l’organizzazione il socio Alessandro Bacci.


Si apre con un mistero e si chiude con un giallo, l’ultimo romanzo di Stefano Zecchi. E in mezzo un lungo flash back di passione, tradimenti e congiure nella Zara del 1943, mentre sulla splendida e indifesa città della Dalmazia si allungano contemporaneamente gli artigli dei nazisti, alleati con gli ustascia fascisti di Ante Pavelic, e dei comunisti di Tito, entrambi decisi a spazzare via la secolare presenza italiana. In mezzo, stretta tra i due fuochi, la popolazione civile, mite e colta, improvvisamente costretta a fare i conti con due diverse barbarie e a scegliere tra due mali, nel tentativo – vano – di salvarsi: la storia vera racconta che Zara con la sua candida filigrana di architetture veneziane e il suo cosmopolitismo multiculturale svanì sotto 54 bombardamenti angloamericani, uno tra i più insensati misfatti (la città era del tutto inifluente come obiettivo bellico, morirono invece migliaia di civili), mentre i titini ebbero mano libera nella pulizia etnica. Una storia profondamente ingiusta e poco raccontata, cui Stefano Zecchi, ordinario di Filosofia Estetica, con L’amore nel fuoco della guerra (Mondadori, pagine 258, euro 20,00) restituisce la memoria. 

Professor Zecchi, nel 2010 ha ambientato Quando ci batteva forte il cuore nella Pola dell’esodo istriano, nel 2014 è stata la volta di Rose bianche a Fiume, ora tocca a Zara, la città che fu detta 'la Dresda italiana' per il suo martirio. Una sorta di trilogia dedicata alla questione giulianodalmata. 

«Mia nonna era triestina e a Venezia da piccolo sentivo raccontare da lei queste vicende, anche se non le ascoltavo con la dovuta considerazione. C’è però un ricordo che mi ha segnato profondamente: avevo sette anni e mio padre, che aveva un negozio di scarpe e che poi si separerà da mia madre per cui dai 14 anni non lo vedrò più, durante la pausa pranzo mi portava a passeggiare in Riva Schiavoni. Da lì vedevamo le motonavi che arrivavano dall’Istria con a bordo gli esuli, quei poveretti trascinavano le borse, si sedevano per terra stremati, si cercavano... ricordo i richiami, i nomi che urlavano per ritrovarsi. Mio padre parlava poco, ma quel giorno mi disse: 'Ricordati cosa fa una dittatura'». 

La storiografia ha seppellito per decenni il dramma delle Foibe e dell’esodo. Oggi la letteratura può ancora colmare questo silenzio? 

«Nei tre romanzi racconto semplici vite umane, che diventano drammatiche perché vissute in quel contesto storico dai contorni tragici. Non voglio dimostrare nulla, voglio raccontare senza compromessi, far riflettere, arrivare in modo diretto al cuore delle persone, e per questo il romanzo è la forma migliore. In fondo anche la Resistenza è entrata nel cuore degli italiani perché ci sono stati grandi narratori come Bassani o Cassola, e grandi film come Roma città aperta. Le Foibe e l’esodo giuliano-dalmata vengono sempre raccontati dando un colpo al cerchio e uno alla botte, stando attenti a omettere tutto ciò che è scomodo, non risulta mai chiaro il martirio di una popolazione innocente, sacrificata agli interes- si politici internazionali. Invece nei tre romanzi il lettore si affeziona ai personaggi, li conosce, li ha fatti suoi, ed è allora che accade l’irreparabile, quindi si chiede: che colpe aveva il bambino di Pola? E il ragazzo di Fiume? E Valerio, il musicista protagonista a Zara?». 

Enorme, invece, appare la colpa degli anglo- americani. 

«Avrebbero dovuto risparmiare migliaia di vite, ma hanno accontentato Tito massacrando dal cielo la città inerme... Tito fece intendere agli alleati che Zara fosse una base strategica dei tedeschi e loro fecero finta di crederci. La realtà era che Zara era un avamposto millenario di cultura italica, prima romana, poi veneziana, infine italiana, per questo doveva sparire». 

Dentro la storia di Valerio e Milena, tormentata da tradimenti e spionaggio a tinte noir, lo scontro tra ideologie è il vero protagonista. 

«In questo romanzo la politica è sempre presente e muove tutti i destini. Anche la storia d’amore di Valerio e Milena diventa tragica perché tragico è il momento storico. Tutti i personaggi sono condannati ad un destino negativo a causa di quegli anni in cui non ci si poteva fidare di nessuno, si aveva paura di tutti, persino il comunista croato Rankovic è schiacciato dagli ingranaggi di un meccanismo più crudele di lui... Valerio stesso vive in bilico tra due decisioni, da noncomunista collabora con i titini pur di salvare la città dai nazisti, ma nel contempo lotta segretamente per l’italianità di Zara: ben rappresenta ciò che accadde davvero alla popolazione in quei giorni, non esisteva per loro 'la parte giusta'. È paradossale che alla fine furono trucidati proprio dai comunisti di Tito, non nelle Foibe, che in Dalmazia non esistono, ma nel mare, affogati o fucilati, spariti nel nulla e senza tomba. È una storia che da noi resta nel limbo del non detto, al punto che il presidente Ciampi conferì molti anni fa la medaglia d’oro alla città di Zara... ma ad oggi non è stata consegnata». 

Quali sono state le sue fonti per ricostruire un periodo così complesso? 

«Esistono splendidi libri di storia, spesso di piccoli editori, e poi c’è la memorialistica. Ho studiato molto, senza presunzione, ho anche ascoltato gli zaratini, da Ottavio Missoni a Toni Concina, da Lucio Toth ai Luxardo, ma non mi sono ispirato a una famiglia in particolare, più che altro ho colto un’atmosfera, il sentimento di un mondo fortemente inascoltato, oppure oggi ascoltato con troppi 'però'. Solo in Italia siamo ancora fermi a 70 anni fa e a schieramenti anacronistici, l’Europa da tempo ha fatto i conti con il passato. Ricordiamoci che la conoscenza della storia è alla base della formazione civile e il disorientamento sociale di oggi dipende molto dalla mancanza di consapevolezza del nostro vissuto. Quando la memoria cede ai compromessi se ne perde il valore».

Oggi però il Giorno del Ricordo è celebrato in tutta Italia, le Foibe e l’esodo sono ormai storia nazionale. 

«Infatti non ho avuto le stesse difficoltà che decenni fa hanno incontrato Carlo Sgorlon con La foiba grande o Fulvio Tomizza: ormai la verità la si può scrivere tutta». 

Tre libri per saldare un debito, rimediare ad una colpa, Stefano Zecchi, filosofo veneziano, professore universitario e noto anche al pubblico televisivo, ha raccontato al Club come certi segni e certe parole del papà, molto parsimonioso nei rapporti con lui, gli fossero tornati di attualità insieme al desiderio di raccontare una storia per troppo tempo ignorata.

Tre libri, dal titolo ‘Quando ci batteva forte il cuore’, ‘Rose bianche a Fiume’ e ‘L’amore nel fuoco della guerra’ nascono in realtà da quando il padre gli indicava da bambino l’arrivo in barca a Venezia degli italiani che se ne tornavano dall’Istria e trattati proprio come dei profughi e non come dei connazionali in difficoltà.

"Era una cosa ormai quasi dimenticata, ma da Assessore alla Cultura a Milano ricordo che il Sindaco Albertini pochi giorni prima della Giornata del Ricordo, istituita da Ciampi, mi invitò a fare qualcosa per festeggiarla adeguatamente. Chiesi aiuto, ma quell’evento mi stimolò i ricordi e anche il desiderio di raccontare attraverso dei romanzi una storia troppo a lungo mistificata. A scuola si studiavano i libri di Lucio Villari, che raccontava la storia delle foibe esattamente rovesciata".

Secondo Zecchi, la resistenza entra nel cuore degli italiani grazie a romanzi e film e da qui il desiderio di contribuire alla verità. Quindi tre romanzi, tutti di grande successo. "Le foibe sono un dramma della nostra storia e fino a pochi anni fa non è stato facile raccontarla. Trieste diviene italiana nel 1954, Togliatti voleva il confine a Monfalcone. Troppi italiani ignorano quei fatti o peggio ancora li mistificano".

 


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